mercoledì 1 febbraio 2017

Renzi, Giulio Cesare e il dopo referendum

Questo articolo lo scrissi tra il 5 e il 6 dicembre 2016.
Ho provato a proporlo un po' in giro, senza grande successo.
Poi me ne sono dimenticato. Ho lavorato ad altro.
Oggi appare qui per puro sfizio.


Renzi, Giulio Cesare e il dopo referendum

Venerdì 2 dicembre mi sono svegliato con in testa una sorta di parallelo storico-politico, chiaro e nettissimo. Quando mi capitano episodi del genere non posso fare a meno di rivivere quella grandissima scena del Gattopardo in cui Burt Lancaster introduce la sua considerazione politica al padre Pirrone ("Lo sa cosa succede da noi? Niente succede"). Non è un caso forse che, anche nel libro di Tomasi di Lampedusa, il pensiero politico che esce dalle labbra del principe di Salina nasca in un momento casuale di primizia mattutina, mentre questi si sta radendo.
Uno studente di storia e di letteratura quale io sono non può fare a meno di vedere, nella vita pubblica, nei fatti di cronaca di tutti i giorni, la ciclicità degli eventi, le storie che si replicano. E, da qualche giorno a questa parte, personalmente non riesco a non vedere gli ultimi spasmi della repubblica romana, e in particolare la vicenda di Giulio Cesare.
Cesare è un uomo dall'intelligenza politica fuori dal comune, che sa unire abilità tattiche e tempi di manovra con una precisione assoluta. Non a caso arriva alla massima carica di potere con un meccanismo inusuale ma previsto dalle leggi. Non inventa nulla, si può dire: cavalca gli eventi e gli stati d'animo a regola d'arte, procedendo in maniera talvolta evidentemente discutibile ma calcando la linea di una precedente, seppure deprecabile, tradizione. Sfruttando l'incarico proconsolare come nessun altro prima di lui può rimarcare una dignitas originale, cucita su misura per sé, e fare piazza pulita di qualsiasi altro concorrente (esterno come interno alla sua corrente) fino a diventare, a tutti gli effetti, il dominus assoluto della politica romana.
Non trovare delle curiose coincidenze con la rapida ascesa del dimissionario Presidente del Consiglio è per chi scrive impossibile.
Non era impossibile per un politico romano diventare console almeno una volta nella vita (l'incarico era di durata annuale, e perdipiù si esercitava in coppia).
Difficile era, semmai, restare sulla cresta dell'onda, non appiattirsi nei comodi meccanismi clientelari cui l'appartenenza all'aristocrazia senatoria aveva fatto una parassitaria e stagnante abitudine.
Non è impossibile per un politico di professione diventare sindaco della propria città di origine. Difficile può essere, da "semplice" sindaco, diventare in tempi brevissimi segretario del più grande partito nazionale e a furor di popolo capo dell'esecutivo.
Cesare assume l'incarico di Dittatore (con la maiuscola, proprio perché si trattava di una carica prevista dagli ordinamenti repubblicani e non del sostantivo deteriore che si intende oggi) e la prima cosa che fa è perdonare i suoi avversari. Agisce così per tutta una serie di ragioni, non ultima una certa convinzione che la Pietas (altro termine da intendere alla latina, profondissimo e diverso da quello della "pietà" comunemente intesa) appena dimostrata gli farà, e non poco, gioco.
Cesare assume la dittatura, che gli viene consecutivamente rinnovata nel corso degli anni, e senza abolire le magistrature vigenti, ma anzi incrementando in un certo senso il numero dei funzionari dello Stato, avvia un profondo meccanismo di rinnovamento dello stesso. Il progetto di Cesare è chiaro e semplice: egli si è reso conto che l'immobilismo della Repubblica è da imputare principalmente proprio alla classe degli Optimates, dei senatori, che tra le altre cose non è più rappresentativa del corpo societario reale. Quindi decide di ampliarla. Non si tratta ovviamente di un processo democratico in senso moderno; sarebbe pretestuoso crederlo. Si tratta, semmai, di ridistribuire delle competenze, dei carichi di lavoro, delle clientele (che quando sono troppe diventano l'anticamera della corruttibilitá) e pertanto anche dei flussi di denaro. Con l'effetto collaterale di una maggiore apertura della politica nei confronti della società, questo è pur vero.
Naturalmente ai senatori questa ipotesi di rinnovamente non piace nemmeno un po'. Ed è così che si arriva alle Idi di marzo.
Ma ormai il dado è tratto. Alea iacta est.
Cesare è passato e un segno lo ha tracciato. Sperare di tornare indietro, una volta che il meccanismo si è avviato, è impossibile. Quale meccanismo? Quello che porta a un maggiore accentramento del potere, ovvio. Che è, per un insieme di convenzioni e di sensibilità un meccanismo relativamente lento, ma inesorabile.
Negli ultimi anni di vita della repubblica romana gli uffici tradizionali continueranno a essere coperti stabilmente, ma avranno sempre meno vigore. Questo strascico istituzionale permetterà a Marco Antonio di far passare per progetti personali intenzioni e disposizioni già avviate (o comunque già concepite) dallo stesso Cesare.
Non vi sono particolari diversità da quanto è accaduto al governo di Renzi. Il Matteo fiorentino è stato in buona sostanza il primo a proporsi come leader della cosiddetta Terza Repubblica, e si è posto quale leader in un modo sostanzialmente nuovo, molto più "presidenzialista" di quanto nemmeno lo stesso Berlusconi, evidentemente impacciato dai vari vincoli di coalizione tra AN e Lega Nord, fosse mai riuscito a fare.
Matteo Renzi è passato, e con questo non voglio certo dire sia finito.
Intendere un presidente del consiglio "garbato" e in senso largo rispettoso dei confini tra i più diversi ruoli istituzionali non sarà più possibile per un pezzo.
Lo stesso si può dire della mancata riforma istituzionale.
Se ne è parlato talmente tanto che ha finito col depositarsi nel profondo delle coscienze. Pur senza riscuotere il successo che l'esecutivo sperava, è ben stata scritta, tutti ne hanno parlato, molti l'hanno capita (al punto di criticarla e di avversarla).
Il Rubicone è stato attraversato: la storia di Roma ha dimostrato che da quel momento, da quelle prime truppe entrate in armi entro i confini della repubblica, nessun capo ha più potuto fare a meno di governare senza l'ausilio di una legione, pubblica o privata che fosse.
Non credo sia eccessivo prevedere che nessun presidente del consiglio, in futuro, riuscirà a governare senza tentare di essere il più "presidenzialista" possibile. Nessun capo potrà fare a meno di farsi chiamare un po' Cesare.
Adesso ci troviamo nel momento della transizione, al domani delle idi.
La transizione Roma la gestí con un triumvirato.
Marco Antonio, il luogotenente delle guerre galliche, esuberante e caratterialmente sanguigno.
Ottaviano, prodotto speculare del padre adottivo, esatto e contrario, ancora più scaltro e ancora più spregiudicato.
Lepido, il fedele, il protetto, proconsole in Spagna: il terzo incomodo di cui quasi ci si scorda.
Lepido oggi potrebbe essere tranquillamente Bersani, o Speranza, o Cuperlo magari.
Marco Antonio viene certamente dalle fila dei 5 stelle.
Ottaviano? Forse è proprio l'altro Matteo.
In fondo la pax augustea altro non fu che un deserto dopo uno sterminio. Ovvio, dalla pancia del popolo fu digerita tranquillamente dopo circa due generazioni di conflitti intestini. L'ultima guerra intestina la vinse Ottaviano, che non era certo il migliore, moralmente parlando, dei tre (ma è pur vero che scegliere un "migliore", tra i tre, non è impresa da poco).
Dove si colloca Berlusconi in tutto ciò? Provocatoriamente, Berlusconi sarebbe Cicerone: la prima, antesignana, avvisaglia di un cambiamento del corpo politico che non è mai avvenuto. Convinto di poter indirizzare il nuovo giovane leone e condannato a essere contraddetto dai fatti.
Da Cesare, da Ottaviano in poi, la storia ha conosciuto gli imperatori: qualcuno non è stato un male (Traiano, Nerva, Marco Aurelio); molto più spesso non è stato un bene.
... e i cesaricidi? Dopo le idi di marzo se ne è persa la memoria.


Nessun commento: